Recensioni
Published on Giugno 25th, 2009 | by Nidil_Firenze
1I sessantenni hanno occupato tutto, ma perché i trentenni non si ribellano?
Non è un paese per giovani
di Elisabetta Ambrosi, Alberto Rosina. Generazione «rapinata»: un’immagine che ben sintetizza la condizione di chi è giovane nel nostro paese. E ben rappresenta anche il senso di colpa che dovrebbe disturbare il sonno di chi appartiene alla generazione degli attuali sessantenni. Le loro responsabilità sono molte e chiaramente individuabili. C’è poco da salvare della loro azione pubblica. Ci si ricorderà di loro come di una generazione abile a farsi classe dirigente, spietata nel difendere le proprie posizioni di potere, incurante del bene comune e della crescita dell’Italia. Conclusa la stagione nella quale lo stato e l’economia hanno fatto leva sul debito pubblico e sulla svalutazione della lira, le nostre élite hanno mostrato impietosamente tutta la loro disarmante incapacità. A fare le spese di tanta arrogante imperizia dirigenziale sono stati soprattutto gli attuali trentenni, che hanno assistito al drammatico deterioramento di garanzie e prerogative rispetto alle generazioni precedenti e ai coetanei europei. Costretti a rivedere progressivamente al ribasso le proprie aspettative nel loro percorso di transizione alla vita adulta. In un simile contesto, ci si aspetterebbero dure forme di rivolta e protesta da parte dei giovani. Invece le loro reazioni, se così si possono definire, sono assenti, oppure scarsamente efficaci. Troppo accondiscendenti nell’essere trattati più come figli che come cittadini, nel chiedere come favore dai genitori quanto negli altri paesi si ottiene dallo stato come diritto, in loro hanno prevalso il disincanto, l’inerzia, l’arte tutta italiana di andare avanti vivacchiando. Rassegnati come chi si sente impotente di fronte a una forza superiore che lo travolge. Sono il ritratto di un paese che ha rinunciato non solo a crescere, ma persino a sopravvivere in maniera dignitosa. Lo specchio di una società squilibrata e iniqua, che non investe sulle sue risorse più vitali e non fornisce ai più capaci le opportunità che meritano. Una via di fuga è quella di andarsene all’estero. Cacciati come Dante da Firenze. Oppure rimanere, lavorando il doppio per ottenere la metà. Raccontare in dettaglio quale sia lo stato d’animo di un lavoratore con contratto di pochi mesi è indispensabile per capire molte – anche se non tutte – ragioni per le quali i giovani non mettono in atto una dura protesta. Anche chi ha molti ottimi motivi per protestare, di fatto si trova costretto a pensare a cosa mangerà, da rivoluzionario, una volta che il contratto sarà scaduto. Ciò che rende angosciante la condizione del lavoratore «finito» non è tanto il fatto di non avere un lavoro per tutta la vita, immagine che quasi un po’ spaventa. Ma l’idea di un lavoro a breve o brevissimo termine, e soprattutto, più in generale, il pensiero fisso che si può essere mandati via in ogni momento (e senza qualche protezione in uscita). Proprio il carattere precario del lavoro, e la strenua lotta per la conquista di una qualche forma di stabilità, sottraggono energia per qualche forma di mobilitazione e di protesta, di rivendicazione dei propri diritti. Chi non ha un contratto forte è incentivato a tacere, se non vuole rischiare il posto. Certo, questo valeva anche per gli operai di un tempo, come per i lavoratori di tutti i tempi. La protesta è sempre stata rischiosa, ma per i precari lo è ancora di più. E per di più i vari sessanta-settantenni che accusano i giovani di oggi di essere incapaci nell’aprire fronti di critica e lotta forse pensano che un collaboratore a tempo determinato di trentacinque sia come un adolescente, che vive la sua tempesta ideologica, parallelamente a quella ormonale. L’isolamento e la frammentazione, uniti alla mancanza di una rappresentanza politico-sociale e di parole d’ordine condivise, contribuiscono a ridurre le possibilità di una lotta comune. Ma tutto ciò non basta a spiegare perché i trentenni di oggi, incapaci di guardare alle conseguenze delle loro microazioni, da un lato continuino infantilmente a contrapporsi gli uni agli altri nel tentativo di vincere la competizione per pochi spiccioli, dall’altro non riescano ad avere quel minimo di lungimiranza per capire che la divisione è funzionale al mantenimento dello status quo (come gli operai di un tempo ben sapevano) e che ogni atteggiamento di servile accettazione delle angherie, di rinuncia ai pieni diritti di cittadinanza sociale, non fa che danneggiare alla fine tutti. Perché spegne quella carica di vitalità e dinamismo che è l’unico vero motore del cambiamento. Fare proprie le regole di un gioco che non si condivide, rende alla fine ognuno di essi another brick in the (gum) wall, un altro mattone nel muro di gomma – sempre più ispessito – che le prossime generazioni si troveranno davanti. Giovani che diventano rapidamente vecchi, somigliando sempre di più a chi li ha raccomandati o cooptati. Pallide copie di quei signorotti locali che talvolta almeno posseggono un certo grado di creatività. Elementi perfetti per un ingranaggio che non produce più nulla e dove conta solo l’autoconservazione e la protezione dei piccoli e grandi privilegi acquisiti. Se il male dell’Italia negli anni ottanta è stato il deleterio rapporto di scambio tra chi governava, da una parte, e partiti di opposizione e sindacati, dall’altra, quello che frena ora il cambiamento è qualcosa di analogo, che potremmo chiamare «consociativismo generazionale». Anche qui esiste una relazione asimmetrica tra i consociati, ovvero tra la generazione che nella sostanza occupa e detiene i ruoli di potere e quella che entra nella vita pubblica. Proprio come l’opposizione nel nostro paese ha spesso rinunciato alla sua virtuosa funzione di lotta costruttiva avallando invece una logica di spartizione delle risorse, così gli attuali trentenni italiani evitano messa in discussione dell’esistente e protesta, accettando di ottenere come favore quello che negli altri paesi si ottiene perché diritto. La logica a cui sottomettersi è la seguente: se sei bravo non avrai problemi a trovare, prima o poi, chi ti raccomanda per il lavoro giusto o chi ti coopta per assegnarti la posizione adeguata. Ma ci sarà sempre qualcuno da ringraziare e che condizionerà le tue scelte. Di «guerra», di sano conflitto non c’è traccia. Incapaci di trascendere, almeno un poco e magari con ironia, la sfera angusta della sussistenza materiale, non stimolati a cambiare, la generazione dei settanta e dei primi anni ottanta si lascia vivere insediata nei bui e claustrofobici anfratti del sistema, resi meno spaventevoli da consolle, tv e computer che non necessitano di luce solare. Ma la storia insegna anche che, nonostante gli ostacoli, ogni generazione ha non solo il diritto ma anche il dovere di trovare la propria strada; anzi, quello di doversi guadagnare il proprio spazio di crescita, e se ciò le viene precluso, di forzare il cambiamento, è un destino inevitabile.da l’unità del 18 giugno 2009
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