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Published on Luglio 6th, 2010 | by Nidil_Firenze

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Crisi calcistica e crisi economica: quando le analogie ingannano

rosaNella settimana in cui la nazionale di calcio italiana ha segnato il

punto più basso della sua storia, sulla stampa le analogie tra la crisi

calcistica e la crisi economica e morale del paese si sprecano, dal

Corriere al Fatto Quotidiano.

.L’altro grande simbolo della crisi italiana che persiste all’attenzione

della stampa è il caso Pomigliano. Per una volta almeno non siamo

d’accordo con Tito Boeri, che su Repubblica 

si spazientisce con chi parla di lavoratori oppressi dalla

globalizzazione a proposito di Pomigliano, contrapponendo a quella

vicenda il quasi milione di lavoratori precari che non hanno più lavoro

né ammortizzatori sociali.

In entrambi questi discorsi simbolici si tende a confondere la

specificità italiana con fenomeni che sono molto più ampi. La crisi

calcistica è certo italiana: è vero che coinvolge i cugini francesi, ma

non pare che Olanda o Germania abbiano dimenticato che per vincere le

partite bisogna cominciare a costruire azioni prima del sessantesimo

minuto della partita. La decomposizione del mercato del lavoro e

l’incapacità di investire sui giovani sono anch’essi fenomeni italici:

ci racconta Concetto Vecchio in un interessantissimo articolo di

Repubblica che a fronte delle peripezie dei giovani stagisti italiani, che solo nel

9% dei casi al termine di uno stage non pagato di sei e più mesi vengono

assunti dall’azienda che li ha formati, è ben difficile convincere a

rientrare in Italia i venticinque-trentenni che in Olanda vengono

considerati giovani professionisti da retribuire con 2000 euro al mese.

Sia sul calcio che sullo spazio ai giovani pensare di rivoluzionare la

recente storia italiana prendendo magari spunto dall’estero dove le cose

funzionano è quindi sicuramente una buona idea.

Ma la crisi economica in sé e per sé non è una crisi italiana.

Pierfranco Pellizzetti sul Fatto Quotidiano 

giustamente cita Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, che chiama

“globaloneria” la retorica della competitività a cui tutto dovrebbe

essere sacrificato. Lo stesso Krugman in un articolo pubblicato

recentemente (Internazionale del 4 giugno) sostiene anche a proposito

dei tagli alla spesa pubblica non solo la loro inutilità, ma addirittura

la loro pericolosità in questa congiuntura di alta disoccupazione. La

ragione per la quale i governi mondiali compatti perseguono queste

infondate strategie non è che i mercati le chiedono, ma che *potrebbero*

chiederle in futuro. Detto in altre parole, è una lusinga preventiva

all’economica finanziaria, non una solida strategia di rilancio

dell’economia e dell’occupazione, a muovere le azioni dei governi – di

tutti i governi occidentali.

Ed è per questo che proporre in Italia di scambiare i diritti con

maggiore occupazione e minore precarietà, prendendo a prestito da altri

paesi strategie la cui efficacia è dubbia, è un ragionamento che non fila.

 


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