Published on Giugno 4th, 2009 | by Nidil_Firenze
4Generazione mille euro: se il precario va di moda
E’ ufficiale. Sta nascendo un nuovo sottogenere cinematografico: la commedia sul precariato. Ormai la media sta arrivando ad, almeno, un film all’anno: Il Vangelo secondo precario di Stefano Obino (2005), Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008), Fuga dal call center di Federico Rizzo (2009) ed ora Generazione 1000 euro di Massimo Venier. Quest’ultimo è prodotto da RAI cinema, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro Rimassa e Antonio Incorvaia (Rizzoli, 2009). Il regista ha diretto i film di Aldo, Giovanni e Giacomo; tra gli interpreti ci sono Carolina Crescentini e Valentina Lodovini (due tra le attrici emergenti del cinema italiano), Francesco Mandelli (conduttore di MTV), oltre ad un cammeo di Paolo Villaggio. Il film esce in 300 copie, distribuito da 01 (mentre, Virzì a parte, gli altri due film hanno avuto una circolazione più o meno legata al passaparola). Sono tutti indizi importanti, che ci dicono come le “nuove identità di lavoro”, ormai non più così nuove, iniziano ad interessare il cinema di genere, che può utilizzarle perché entrate nell’immaginario comune. A partire dal titolo: la definizione “Generazione 1000 euro” è stata per un po’ di tempo una formula giornalistica per descrivere il fenomeno del precariato.
Ma veniamo al film che ruota intorno alle storie intrecciate di quattro personaggi: Matteo (Alessandro Timperi) è culture della materia alla facoltà di matematica, senza nessuna speranza di avere un qualche ruolo retribuito, nonostante la stima del professore (Villaggio). Sbarca il lunario grazie ad un lavoro nel settore marketing di un grande azienda, dove sono in atto tagli al personale. Divide la casa con Francesco, laureato al Dams, che, però, fa il proiezionista in una sala cinematografica. Mollati improvvisamente dal terzo coinquilino e con l’acqua alla gola per l’affitto, si ritrovano in casa Beatrice (Valentina Lodovini), maestra precaria. E poi c’è Angelica (Carolina Crescentini), che Matteo conosce in azienda: ambigua, abituata a ottenere quello che vuole, in carriera.
Tutto qui. Il centro del film, più che il precariato, è una delle situazioni più tipiche e ormai logore della commedia sentimentale: la bionda, una stronza “da 7 e mezzo, otto” (è la definizione che ne viene data da Francesco) e la mora, più incasinata, ma anche, altrettanto ovviamente, più sincera. In mezzo il protagonista con la faccia di quello che non capisce, ma che ormai c’è dentro.
Il fatto è che il mondo del lavoro discontinuo si presta perfettamente per rinnovare, e giustificare, un repertorio di situazioni tipiche, a partire dalle difficoltà e dagli intrecci sentimentali (incertezza lavorativa = “precariato affettivo”), non risparmiandoci nemmeno la corsa al treno o l’abbandono al gate di imbarco dell’areoporto.
E poi altro ancora: gli incovenienti (il telefono rimane senza credito, e, ovviamente, non ci sono soldi per ricaricarlo, Matteo spende tutti i soldi dell’affitto in un viaggio di lavoro e non sa se riceverà il rimborso), gli antagonismi e i tradimenti tra vicini di scrivania. Nei dialoghi il tema del lavoro precario è condensato in formule efficaci. Basta “frullare” insieme le centinaia di parole scritte sui giornali o dette in televisione in questi anni: “Trovare un lavoro è come preparare la cena: apri il frigo e ti convinci che quello che c’è, è proprio quello che volevi mangiare”, “Questa è l’unica epoca in cui i figli stanno peggio dei padri e la nostra risposta qual è? Mangiare sushi?!”. Di sottofondo, ovviamente, le canzonette-tormentone del momento.
Chi guarda riconosce il modo di raccontare reso familiare da spot pubblicitari, che sempre più frequentemente buttano un occhio al sociale.
In termini di pubblico tutto questo paga: il film è tra i primi cinque visti nel fine settimana.
E i precari? Ci sono perché, ormai ben connotati e riconoscibili, sono entrati a tutti gli effetti nel repertorio dei personaggi.
Il fatto che, collegato al film e al romanzo, siano attivi un blog e un forum di “milleuristi” sembra solo un’operazione di marketing (.
Se cercate un film, uscito da poco, che racconti qualcosa di interessante sul mondo del lavoro, andate a vedervi Louise e Michel: grottesco (a volte persino sgradevole), solo apparentemente paradossale, racconta di come il lavoro globalizzato renda tutti mostri, anticipando, nei temi e nelle situazioni, quello che poi sta effettivamente accadendo in Francia con i sequestri simbolici dei manager.
Questo è cinema che serve.
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