Published on Maggio 27th, 2010 | by Nidil_Firenze
2lo schock generazionale e i problemi dell’Università italaiana
In queste ultime settimane, mentre assistiamo alle proteste (occupazioni dei rettorati da parte dei precari dell’università) ed ai nuovi progetti futuribili (“Progetto Italia” del PD) per l’università italiana, sono sempre più convinto che continuiamo ad annusare la sola maleodorante superficie del precario sistema universitario.
Sembra che i problemi dell’università pubblica italiana si possano risolvere attraverso quello che Maria Chiara Carrozza, 45 anni, direttore della Scuola Superiore Sant’Anna e relatrice del dossier sull’università per il “Progetto Italia” dal PD, definisce lo “shock generazionale”: eliminazione del turnover, i professori strutturati a casa dopo i 65 anni d’età, contratto unico per la ricerca, ed infine la riapertura a nuove assunzioni. Soluzioni condivisibili, forse giuste ma superficiali, che ancora una volta aggirano i problemi strutturali del sistema…e fanno in modo che si ripresentino con costante continuità.
Uno di questi è la qualità generale del sistema, che connota la successiva formazione culturale e professionale di uno studente, nonché la sua capacità lavorativa e qualità delle sue idee-innovazioni-progetti da restituire in futuro alla società…e tutto ciò non è riconducibile al “solo” problema dell’età (svecchiare l’università è sì un’esigenza, ma non “la soluzione”). Credo che la capacità di formare uno studente, non abbia vincoli riconducibili all’età dell’insegnante: ci sono professori aggiornatissimi e molto capaci che hanno 70 e più anni e i loro corsi sono zeppi di studenti contenti e vogliosi di imparare…e parallelamente corsi tenuti da giovani-vecchi docenti che sono deserti, insignificanti, banali. Forse sarebbe giusto riflettere sulle capacità-qualità degli insegnati e non sulla loro età: non tagliare a priori, ma valutare, individuando criteri oggettivi, qualificanti (ricerche innovative applicate alla capacità di insegnarle e trasmetterle / riscontro da parte degli studenti / ecc..) e premianti.
Un altro problema strutturale sarebbe quello dell’eventuale separazione delle carriere (per lo meno in quelle in cui esiste oggettivamente il problema): anche se concettualmente sono contrario, se mi guardo indietro e valuto cosa è diventata l’università pubblica oggi, che permette appunto ai suoi strutturati di essere sia formatori che professionisti, i dubbi sulla solidità e qualità del sistema diventano sempre più consistenti. Professori-professionisti, anche di altissimo “prestigio” (vedi il ministro Brunetta) che non insegnano ma hanno la cattedra, non sanno nulla delle dinamiche interne alla facoltà, ma siedono nelle poltrone più importanti…
Vogliamo poi parlare dei costi? È giusto che un ordinario percepisca 5000 euro per svolgere un incarico di docenza di 8-10 ore settimanali, per dedicare poi il restante tempo lavorativo ad attività professionale privata? È giusto che i “non strutturati” (contrattisti, borsisti, assegnasti, dottorandi – stimati dal Miur in 50.000) ed “invisibili” (assistenti, cultori della materia, collaboratori di cattedra – non stimati da nessun ente) siano costretti a riempire i vuoti didattici (lezioni, ricevimenti, correzione tesi, revisioni, ecc…) degli strutturati, a costi zero? Certo, è valso per molti, ma non per tutti, il principio: <<all’inizio stingo la cintola, e poi mi sistemo>>; ma facendo così abbiamo, per anni, alimentato un sistema perverso che puntualmente ci si è ritorto contro…
In questo quadro, la Riforma Gelmini è solo l’ultimo atto di una serie di provvedimenti che mirano alla declassazione del concetto di “formazione culturale”. E mentre lottiamo per l’affermazione di diritti, riconoscimenti lavorativi e tutele, in un sistema pachidermico e lucroso, e probabilmente irrisolvibile con le “soluzioni” elencate dalla Carrozza, nessuno si preoccupa delle dispendiose ma sicure lauree on-line che offrono un servizio formativo fasullo ma equiparato ai titoli rilasciati dalle normali università, e delle costosissime università private ormai affermate e riconosciute come luoghi del sapere di vera qualità. La riforma della scuola superiore, il numero chiuso, gli elevati costi per l’accesso alla formazione universitaria, hanno fortificato ed accrescono tuttora il mito della “laurea per forza” (…purché non sia acquisita nell’università pubblica): lo slogan è stato <<se vuoi un futuro lavorativo degno e sereno, senza la laurea non vai da nessuna parte>>…e tutti a rincorrere il mito…a prescindere dalle reali prospettive offerte dal mondo del lavoro. E non importa a che prezzo: le illusioni e le aspettative non hanno costo…almeno per chi se lo può permettere!
Rivendicare diritti e futuro, per il proprio lavoro ed impegno, non è solo un processo di riconoscimento lavorativo, ma è un obbligo culturale. Ma se, attraverso soluzioni sbrigative e temporanee continuiamo a semplificare il sistema formativo pubblico, perdiamo di vista la sua enorme complessità, con il rischio di disperderne definitivamente il valore e l’essenza culturale.
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