Published on Giugno 18th, 2009 | by Nidil_Firenze
3Nella lente della precarietà
Il lavoro e i giorni
a cura di Mario Desiati e Stefano Iucci
ROMA, EDIESSE, 2008, pp. 160
Con la progressiva crescita del precariato la letteratura sul lavoro, negli ultimi anni, dopo una lunga pausa, ha conosciuta una nuova fioritura. Dai primi passi mossi da coloro che sono considerati un po’ i “padri” del filone – pure giovani scrittori come Andrea Bajani, Angelo Ferracuti, e lo stesso Mario Desiati che ha curato insieme a Stefano Iucci questa raccolta – a una vera e propria proliferazione di quello che più che un genere è un tema, un nodo da raccontare. Dopo qualche anno assistiamo adesso a un leggero e significativo spostamento dell’oggetto del racconto: da protagonista il lavoro diventa punto di vista, da oggetto si fa soggetto, da
tema si fa personaggio che non racconta se stesso ma legge piuttosto attraverso una lente d’ingrandimento, particolare e sfasata, la quotidianità. Questa impressione diventa evidenza nei venti testi qui assemblati dove gli autori non raccontano più, o non solo, “un” lavoro, ma una condizione che è diventata predominante e totalizzante.
Il precariato, ci hanno insegnato i romanzi prima ancora degli economisti, non è una condizione lavorativa, ma uno stato esistenziale che dirige e condiziona come un centro di gravità le scelte, i caratteri, i giorni di giovani e meno giovani. Non è un caso che molti degli autori qui presenti siano poco più o poco meno che trentenni, impegnati con questioni delicate e di passaggio come la maternità, o con professioni come il cinema, la televisione e la pubblicità, ma il loro sguardo si spinge anche a indagare in poche pagine le vite precarie della generazione dei padri, fatti fuori dal mercato e alle prese, come i figli, con l’obbligo di reinventarsi quanto prima. Così, nelle venti tracce di questa mappa per lavoratori smarriti, si apre uno squarcio più sui “giorni” che sul “lavoro”, sulla vita che scivola, sulle conseguenze e sugli effetti della condizione più che sulla condizione stessa. In questo senso, lo sappiamo, il lavoro diventa sempre più un collage di esperienze “liquide”, spesso scollegate tra loro, che intervengono e determinano. Non è mai stato così difficile trovare se stessi, fare un figlio, pensare al domani, anche se i figli si sono sempre fatti e il domani è sempre arrivato pure per chi non poteva permetterselo. Cosa è cambiato allora? Ce lo spiegano questi racconti, dove non a caso si parla spesso di scuola, di università e di formazione, i primi anelli di una catena arrugginita. Giorgio Fontana in Il problema della semplificazione, narra di un corto circuito educativo che interviene tra l’impostazione meritocratica della scuola e la disillusione contraddittoria del mondo del lavoro. Prima e dopo di lui i racconti di Chiara Valerio e di Federica Manzon ci riportano nelle aule degli insegnanti e dei bidelli, sempre più ai margini di un sistema che scricchiola, mentre Piero Sorrentino e Monica Mazzitelli si affacciano sui corridoi universitari per raccontare, sempre però di lato, di profilo, l’emarginazione e la fatica della ricerca.
Barbara di Gregorio e Alessandro Leogrande prestano i loro racconti agli immigrati, a quelli che “rubano” il lavoro agli italiani e a quelli che ne raccolgono gli scarti. Angela Fiore affronta invece ciò che è diventato un po’ il simbolo del precariato, il call center gestito da quelli che con una felice formula comica chiama i “donatori di lavoro”. Ma uno solo, su venti, ci riporta all’accezione più antica del termine per come fin da piccoli abbiamo imparato a conoscerlo, il lavoro come fatica, fatica fisica, il lavoro manuale, quello dei campi. La rivoluzione del sudore invocata da Di Consoli è forse la sola dove il labor non è finalizzato allo stipendio, dove l’azione non ha come fine ultimo la spesa: “ Il fatto vero – scrive – è che in Italia è pieno di persone che confondono il lavoro con lo stipendio, di persone che hanno venduto il culo a una scrivania, di persone che non sudano più…Invece c’è da fare un sacco di cose: la natura e le città hanno bisogno di essere spostate, ripulite e abbellite…ci sono da ripulire fiumi, montagne e mari e poi ci sono terreni da zappare, gramigne da estirpare, fiori da conservare”. Come dice Raffaele Manica nell’introduzione “scrivere di lavoro è difficile”, ma certo, soprattutto con queste sfumature, è ogni giorno più necessario.
ROSA POLACCO
Da rassegna sindacale n. 7/2009
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